Un “divorzio” che non si consuma per volere altrui. Nonostante il “feeling” sia finito ormai da troppo tempo. Tutto sulla pelle dei tarantini
Un “amore” disastroso quello tra Taranto e l’acciaio, o meglio con lo stabilimento siderurgico più grande e più scricchiolante d’Europa. Perchè diciamola tutta: fino a due-tre decenni fa quel mostro d’acciaio era persino idolatrato dai tarantini, dispensatore di sicurezza economica e di benessere diffuso. Nonostante i fumi riempissero i polmoni. Poi la storia più recente, con la crescente consapevolezza che quei fumi conducessero inesorabilmente a troppe morti. E che la città ultramillenaria perdesse troppo velocemente la sua storia e la sua bellezza.
Inchieste, condanne, ricorsi e controricorsi, decreti legislativi, governi incapaci di fermare la devastazione di un ambiente (e i troppi dolori dei cittadini) non sono bastati e non bastano a stoppare la marcia, per quanto claudicante, di una fabbrica che da anni cade a pezzi, barcolla ma non molla. Troppi gli interessi in gioco, troppo il danaro speso e, soprattutto, troppo il timore di minare la tenuta sociale di un territorio sofferente e poco in grado di costruire una vera e propria alternativa. Ed è così che anche questo governo non fa che utilizzare la stessa strategia, e cioè il sottinteso ricatto occupazionale magari spargendo pure illusioni con il chiaro intento di far sopravvivere “la siderurgia italiana”.
E’ storia di questi giorni che l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) abbia ricevuto l’ok per un altro decennio e passa, nonostante i “no” delle istituzioni locali (Regione, Provincia e comuni di Taranto e Statte), con alcune centinaia di prescrizioni (470 a quanto sembra). Insomma, si continuerà a produrre acciaio con ciclo integrato fino a 6 tonnellate annue: non importa se gli altoforni siano allo stremo delle forze e chissà pure se potranno produrre…
Ah, già: l’Accordo di Programma. Un fantomatico contratto che il ministro Urso avrebbe preferito fosse firmato dalle istituzioni locali prima dell’ok sull’AIA, ma che per volere di queste ultime avrà risposta – negativa o positiva – solo a fine luglio. Con una bella ruota di scorta: una nave rigassificatrice per ‘aiutare’ il processo di decarbonizzazione dell’ex Ilva. In verità, per aiutare l’Italia all’approvvigionamento di gas. Non dimentichiamo mai che già nel 2006 il governo (prima a guida Berlusconi, poi Prodi) tentò di dare l’ok al progetto per realizzare un rigassificatore a terra della società spagnola Gas Natural International SDG S.A.. Il progetto, che fu avversato dai comitati e dalle associazioni ambientaliste, naufragò nel 2011 (governo Berlusconi, ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo) quando l’allora Commissione tecnica di VIA ritenne troppi i rischi di incidente rilevante vista la vicinanza dell’acciaieria, dell’ENI e di altri impianti ad alto rischio. C’è da chiedersi: perchè insistere, pur trattandosi di un impianto offshore ma che condizionerebbe in ogni caso i traffici (seppur pochi) marittimi e quell’economia del mare (seppur ridotta)?
Tornando all’Accordo di Programma. Ma davvero c’è da fidarsi di uno Stato – a prescindere dal governo in carica – che per anni ha preferito mettere da parte la salute e l’ambiente a suon di decreti e false promesse? Ha detto bene l’ex presidente della Liguria Claudio Burlando, protagonista nel 2005 dell’Accordo di Programma per Genova (firmato, va ricordato, da 5 Ministeri, enti locali, autorità portuale e dalla famiglia Riva) sull’appuntamento del 31 luglio prossimo: “Ho sentito che il ministro ha definito quell’accordo “storico”. Ecco, penso che questo sia un aggettivo che si usa troppo spesso e a vanvera. Non c’è ancora un’AIA (in verità, c’è ma l’intervista è precedente all’ok – ndr). Non c’è ancora un imprenditore individuato per attuare il piano, che ci metta i soldi, per dirla in parole povere. Un’altra incognita è l’atteggiamento che avrà la Puglia, su Taranto e Gioia Tauro. Ci sono troppi elementi di incertezza (fonte www.genova24.it)”. Già, perchè un nuovo proprietario non c’è: è bene ricordarselo.
Il quadro, insomma, è desolante. Perchè in mezzo metteteci pure che l’AIA potrebbe essere impugnata (dalle associazioni o, chissà, fors’anche dalle istituzioni locali, come per esempio ha già ufficializzato il consorzio ASI che è proprietario di gran parte dei terreni occupati dall’ex Ilva). E senza dimenticare la pronuncia ormai prossima del Tribunale di Milano sul ricorso a suo tempo proposto da diversi cittadini di Taranto per la chiusura dell’area a caldo, sulla base soprattutto della sentenza in sede europea che ha già condannato l’Italia.
Come andrà a finire, ci sarà “divorzio”? Chissà. Ci permettete di essere scettici, poco possibilisti? Certo, non chiediamo alle istituzioni locali, in primis il Comune di Taranto di assumersi responsabilità che non possiede: dare l’aut aut a Sindaco e Consiglio comunale è scorretto, soprattutto da partiti e movimenti politici e falsi profeti che in tutti questi anni hanno persino governato a Roma senza compiere un passo in avanti sulla vicenda. Anche se è giunto il momento di dire finalmente basta.
Foto: Legambiente
