27 gennaio, un giorno dopo

La Giornata della Memoria in qualche modo sta perdendo la propria funzione e parlare di quello che accadde funziona sempre meno. Cosa fare allora?

Sono passati undici anni dalla prima volta che sono stato ad Auschwitz. Me lo ricordo come fosse oggi. E non, come forse qualcuno potrebbe pensare, per la sensazione di aver attraversato un luogo orribile.

Tutt’altro.

La sensazione che mi angosciò allora, e ancora oggi mi angoscia, è la spaventosa e inquietante normalità di quel luogo. Un posto banale, perfino vagamente gradevole. In mezzo alle case, come se nulla vi fosse da nascondere.

Quell’esperienza segnò la mia vita al punto che forse non avrei mai scelto di fare l’insegnante se allora qualcuno non avesse scommesso su di me, gettandomi in mezzo a ragazzini che erano quasi miei coetanei per raccontare loro quello che avevo visto.

Da allora, nelle molte occasioni in cui ho avuto la possibilità di rinnovare quella testimonianza, ho sempre cercato di trasmettere soprattutto questo, l’assurdità di un male impossibilmente grande ma compiuto con una spaventosa normalità, con consumata perizia burocratica. E, soprattutto, mettendo al servizio della morte la più grande capacità dell’essere umano: la ragione.

Eppure, trascorso un altro 27 gennaio, non posso fare a meno di sentire dentro di me che c’è qualcosa di profondamente sbagliato.

Parlare di quell’orrore, raccontare di come attraverso un vero e proprio processo di ricerca e sviluppo si sia arrivati ad inventare il modo perfetto per uccidere (rapido, pulito ed economico) non funziona più. E forse sarà il tempo che si fa inesorabilmente sempre più lontano, forse sarà che anni di clip retoriche e forzatamente strappalacrime in tv hanno reso intollerabile anche quel capolavoro che è la colonna sonora di Schindler’s list, sarà che semplicemente ormai abbiamo celebrato questa giornata così tante volte che “tanto la sappiamo”, sta di fatto che il 27 gennaio tocca sempre meno cuori.

Riuscire a far prendere sul serio quello che con disarmante semplicità scrisse Primo Levi (“È accaduto, dunque può accadere di nuovo”) è diventata un’impresa difficile, quasi impossibile.

E allora, forse, è tempo che qualcosa cambi. Forse parlare della Auschwitz che fu non basta più, forse è necessario parlare sempre di più delle mille piccole e grandi Auschwitz sparse per il mondo di oggi. Perché quello che Primo Levi scrisse si realizza, purtroppo, ogni giorno. Dai lager libici alle strade devastate di Gaza, passando per l’Ucraina e la Siria, l’essere umano non ha smesso di prendere la propria ragione, unica capacità che lo distingue dagli animali (e, per chi crede, supremo dono di Dio) per metterla al servizio della distruzione fisica di altri esseri umani.

Non credo che rinuncerò a raccontare ancora la storia di Auschwitz e di Birkenau, perché quando hai visitato quei luoghi in prima persona avverti il dovere di raccogliere il testimone di chi presto non potrà più raccontare l’orrore che ha visto. Ma di sicuro qualcosa nei modi dovrà cambiare, o questo 27 gennaio finirà per essere solo un’altra inutile giornata a tema su un calendario già troppo affollato…

Author: Alessandro Greco

Docente di Italiano e Storia e giornalista pubblicista. Dal 2015 collabora con "La Vita in Cristo e nella Chiesa", fra le più autorevoli riviste italiane di liturgia, con contributi principalmente sul mondo giovanile e sulla Letteratura (con articoli tradotti all'estero). In passato ha scritto per Nuovo Dialogo e soprattutto per il CorrierediTaranto.it, per il quale è stato prima cronista sportivo e poi cronista politico, sino al 2022. Ha collaborato brevemente anche con "L'Edicola del Sud". È co-autore del documentario in dieci puntate "Taranto, la città nella città - Guida ai vicoli per tarantini distratti (e turisti curiosi)".

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